Mille chilometri a piedi per celebrare libertà e unità nazionale

guzo adwa

Il 18 gennaio 2014, cinque giornalisti etiopi si caricarono lo zaino sulle spalle e partirono a piedi da Addis Abeba. Fu l’inizio di un viaggio straordinario che dopo 42 giorni e circa 1.000 chilometri portò a Adua Ermias Alemu, Alemzewd Kasahun, Mohammed Kassa, Mulgeta Megersa (aka W), e Berhane Negussie. Il loro viaggio [guzo in amarico] si concluse il 2 marzo nella valle ai piedi del monte Soloda, dove parteciparono alle celebrazioni dell’anniversario della pesante sconfitta che il primo marzo del 1896 le forze etiopiche guidate dall’imperatore Menelik II inflissero all’esercito invasore italiano.

Il viaggio fu fatto interamente a piedi, camminando a una media di 25km al giorno. ‘Usare qualunque mezzo di trasporto’ – ha spiegato Berhane Negussie – ‘era vietato e impensabile. Il motto era: ‘finiamo il viaggio a piedi o torniamo a casa’.1

La loro serietà e determinazione facevano eco a quelle degli etiopi che avevano risposto alla mobilitazione generale lanciata da Menelik per fronteggiare l’aggressione militare italiana. L’idea dei cinque giornalisti era di ripetere quel cammino storico, e lo hanno fatto con la sola assistenza di due amici e del loro autoveicolo usato per comunicazioni e rifornimento alimentare. Cibo, bevande e perfino soldi furono forniti loro anche dalla popolazione locale, che li accolse calorosamente durante tutto il viaggio. ‘In alcune città’ – ha sottolineato Berhane – ‘la gente fece centinaia di chilometri per venirci incontro, salutandoci cantando’.2

Riguardo allo scopo del viaggio, Berhane ha spiegato il ruolo importante che la vittoria di Adua ha avuto nella creazione del sentimento di orgoglio nazionale: ‘I nostri antenati sono arrivati da tutto il paese per unirsi e combattere coraggiosamente contro l’esercito italiano a Adua. Questa vittoria non ha soltanto gettato le basi per la nostra indipendenza, ma è stata anche d’ispirazione al mondo intero nella lotta contro la colonizzazione’.3



Una vittoria africana

L’idea di intraprendere quel lungo viaggio a piedi fino a Adua e la calorosa accoglienza ricevuta durante tutto il tempo dimostrano quanto significato abbia ancora la vittoria di Menelik dopo oltre 120 anni. Nel suo brano Adwa del 2001, la cantante etiope Gigi (Ejigayehu Shibabaw) esprime questo sentimento ringraziando la vittoria di Adua per ‘la vita libera che mi ha dato’.

Questa pietra migliare della storia dell’anticolonialismo si verificò nel pieno della corsa alla conquista dell’Africa, appena un decennio dopo la Conferenza di Berlino che aveva segnato l’inizio dell’annessione militare del continente africano da parte delle potenze europee. L’apertura del Canale di Suez nel 1869 aveva dato importanza strategica al Mar Rosso e gli italiani vollero espandersi nell’area, incoraggiati dai britannici in funzione anti-francese. Nello stesso anno, gli italiani stabilirono una stazione commerciale a Assab e nel 1885 occuparono Massaua, penetrando poi in Eritrea e conquistando Asmara nel 1889. Sei anni dopo, le forze italiane guidate dal generale Baratieri iniziarono l’espansione in Etiopia, scontrandosi contro l’esercito di ras Mangasha e sconfiggendolo prima a Coatit e poi a Debre Aila nel 1895. Nel dicembre dello stesso anno, tuttavia, le forze del fitawrari Gebeyehu and gerazmach Tafese sconfissero gli italiani all’Amba Alagi e a Maccallè, dove costrinsero alla resa il comandante del forte locale. Ma il confronto finale ebbe luogo circa sette chilometri a est di Adua, nella valle di Mariam Shavitu e sulle alture circostanti. Gli italiani persero oltre 6.000 uomini, compresi 2.000 ascari, mentre altri 3.000-4.000 furono fatti prigionieri.

Questa non era stata la prima sconfitta che una potenza coloniale aveva subito in Africa. Meno di venti anni prima, nel 1879, i britannici erano stati pesantemente sconfitti dagli Zulu a Isandlawana in Sud Africa, ma la risonanza che ebbe Adua fu incomparabilmente maggiore.

Secondo lo storico Angelo del Boca, con la battaglia di Adua Menelik: ‘ha messo in moto un meccanismo che non si arresterà più, ha riacceso focolai del nazionalismo africano che sembravano spenti per sempre, ha intaccato i reticolati del più vasto campo di concentramento della terra, ha inferto un colpo mortale all’imperialismo contemporaneo e ai protocolli di Berlino’. 4

La vittoria di Adua divenne simbolo di libertà, indipendenza e resistenza contro il colonialismo e l’oppressione non solo in Etiopia e in Africa, ma anche per gli ‘afro-americani nella loro lotta politica per liberarsi dalla schiavitù’.5

Un simbolo di unità

Adua ha avuto un potente valore simbolico in Etiopia, dove ha mostrato quanto vincente fosse superare le differenze politiche e religiose. L’esercito di Menelik comprendeva agau, amhara, oromo, tigrini, gente del Gurage e di altre regioni; ne facevano parte soldati sia cristiani che musulmani. Come ha detto il poeta britannico di origine etiopica Lemn Sissay nella sua bellissima La battaglia di Adua: ‘Non furono solo i guerrieri, ma da dove essi venivano’.6

È questo il messaggio che i cinque giornalisti volevano dare con il loro viaggio per celebrare la vittoria di Adua, che, come ha spiegato Berhane Negussie, ‘è anche l’origine della nostra unità nazionale e del nostro patriottismo’.7

Il loro viaggio si svolse nel 2014, all’inizio di una nuova fase politica in Etiopia. La scomparsa improvvisa del primo ministro Meles Zenawi nell’agosto del 2012 aveva avuto due principali conseguenze politiche: da un lato, aveva creato un vuoto di potere dopo tanti anni come presidente della repubblica (1991-1995) e primo ministro (1995-2012) a capo della coalizione governativa guidata dal suo Fronte di Liberazione del Popolo del Tigrai (TPLF); dall’altro lato, aveva aperto una stagione di cambiamento politico, come diventerà evidente dal 2015 con il programma di riforme radicali lanciato dal nuovo primo ministro Abiy Ahmed.

Con il loro viaggio a piedi, i cinque etiopi hanno evocato il simbolo unificante di Adua come protezione dai rischi attuali che forze politiche centrifughe disintegrino la federazione etiopica composta da una grande varietà di nazioni, nazionalità e popoli diversi.





Nascita di una tradizione

Il viaggio che i cinque giornalisti hanno compiuto a piedi nel 2014 non ha avuto soltanto risonanza a livello nazionale: ha creato una tradizione.

Da allora, il lungo cammino fino a Adua è stato percorso ogni anno con una partecipazione sempre crescente. L’itinerario si è più o meno fissato: Addis Abeba, Weserbi (Sululta), Moye Gajo, Muke Turi, Lemi, Belbelete Yesus, Alem Katama, Midda, Jama Dogollo, Were Ilu, Guguftu, Gelsha, Dessie, Hayk, T’Is Abba Lima (dove fu firmato il trattato di Uccialli), Ysma Negus, Wuchale, Wurgessa, Mersa, Weldiya, Kobo, Ayer Marefe, Alamata, Ashenge, Addi Shegu, Mai Neberi, Qwiha, Mekelle, Wukro, Abraha Asbaha, Abuna Yemata (Geralta), Hausen, Nebelet, Enticho, Yeha, Enda Abba Gerima, e infine la valle ai piedi del monte Soloda dove ebbe luogo la battaglia.

Anche lo spirito e le difficoltà sono rimaste le stesse, come ha raccontato Daniel Ambaw, un partecipante al viaggio del 2019:

‘Il viaggio è durato 53 giorni. Nel cammino verso Adua non era permesso nemmeno toccare un mezzo di trasporto. Era una questione molto seria. Non c’era acqua potabile. Avevamo dei coordinatori che ci portavano cibo e acqua con un’automobile. Ma una volta abbiamo camminato per più di 40 chilometri senza vederli, e cioè senz’acqua. Cercavamo delle sorgenti lungo il cammino. Eravamo nel nord dello Scioa, in un luogo desertico chiamato Ensaro; è stata molto, molto dura. Abbiamo camminato tanto per trovare una sorgente, per bere dell’acqua anche se non era potabile, ma era caldo e dovevamo bere. Durante le pause e di notte leggevamo dei libri di storia. Pensavamo che i nostri padri avevano camminato scalzi, che non c’erano buone strade, nessun mezzo di trasporto; noi eravamo in diciotto, loro in centinaia di migliaia. Noi abbiamo camminato con buone scarpe, ma loro non le avevano e ci hanno dato la libertà. Questo ci ha incoraggiato, era una motivazione forte. È stato duro e doloroso, soprattutto per i primi 15-18 giorni perché non eravamo abituati a camminare così tanto. Vivendo a Addis Abeba non avevamo questo tipo di esperienza. È stato doloroso, ma la motivazione a camminare era che i nostri padri l’avevano fatto scalzi. I nostri padri l’avevano fatto, anche se non c’erano strade ed era buio. Noi abbiamo camminato su strade, con buone scarpe... Dovevamo farlo, questa era la nostra motivazione. La gente che abbiamo incontrato lungo tutto il percorso ci ha fatto una grande accoglienza. Ci davano enjera [pane tradizionale etiopico], tella [birra fatta in casa], e la loro fiducia in noi era una grande motivazione: “Ce la potete fare, siete degli eroi”, ci dicevano. Non mi considero un eroe, stavo solo celebrando gli eroi, ma la gente ci vedeva come eroi, e questo era molto interessante. Mentre camminavamo cantavamo dei nostri canti, prendendo la musica di altri cantanti e scrivendoci le parole. Cercavamo di divertirci, ci siamo divertiti. Ci sono persone che temono che l’Etiopia stia progressivamente sparendo, e ne soffrono. La gente in Etiopia e moltissimi della nostra generazione pensano che ci siano cose più importanti dell’etiopianesimo, ma quando camminavamo abbiamo visto che l’etiopianesimo esiste: c’è questo sentimento, c’è l’ospitalità tradizionale. La gente di accoglieva molto bene. Era una grande motivazione. A volte ci dicevamo: “dobbiamo tornare indietro”, ma dopo aver camminato per 15-18 giorni la gente ha iniziato a darci cibo, pecore, capre e altro ancora e così abbiamo iniziato a pensare: “questo viaggio non è più nostro, è per la gente, questo è il viaggio della gente. Se torniamo indietro, cosa dirà a gente?”. Gli amministratori e i sindaci di ogni città ci davano il benvenuto, ci venivano incontro, ci incoraggiavano e provvedevano al nostro sostentamento e al nostro soggiorno. Dovevamo andare avanti.’8



Anche lo scopo del viaggio non è cambiato negli anni e rimane triplice: celebrare la vittoria di Adua, commemorare gli eroi etiopi ed evocare l’unità della nazione. Quest’ultima è una della questioni più importanti che l’Etiopia sta affrontando, come riflette anche lo stesso cammino di Adua. Nel 2018 i partecipanti si sono divisi in due gruppi a causa di diverse idee politiche: un gruppo, guidato da Yared Eshetu, ha creato l’associazione no profit Guzo Adwa il 20 giugno 2018; l’altro gruppo è rimasto con un’organizzazione informale sotto la guida di Yared Shumete.



Nonostante questa divisione, il viaggio a piedi fino a Adua costituisce un grande esempio dei significati culturali e politici che il camminare può avere. Come ha affermato Yared Shumete, la storia può essere oggetto di manipolazione, ma ‘è scritta sulla terra su cui camminiamo’ e anche se partecipano al viaggio molti gruppi diversi ‘alla fine ci incontreremo tutti a Soloda, e saremo noi a vincere’. Il fine è la vittoria’.9



note

Immagine di copertina: Pittore etiope anonimo, Battaglia di Adua, 1906, particolare, National Museum of Natural History, Smithsonian Institution.

Fotografie dall'alto: dalla 1a alla 4a, courtesy Berhane Negussie, Guzo Adwa 2014; 5a, courtesy Daniel Ambaw, Guzo Adwa 2019; 6a, foto MdC, evento per Guzo Adwa al Taitu Hotel, Addis Abeba, 12 otobre 2018.

1. Berhane, Negussie, intervista, 31 gennaio 2020.

2. Ibid.

3. Ibid.

4. Del Boca, Angelo, Gli italiani in Africa Orientale. Dall’unità alla marcia su Roma, Bari, Laterza, 1976, p. 701.

5. Getachew, Metaferia, ‘Ethiopia: A Bulwark Against European Colonialism and its Role in the Pan-African Movement’, in Paulos Milkias and Getachew Metaferia (eds), The Battle of Adwa. Reflections on Ethiopia’s Historic Victory Against European Colonialism: Interpretations and Implications for Ethiopia and Beyond, New York, Algora, 2005, p. 195, trad. italiana MdC.

6. Sissay, Lemn, The Battle of Adwa, URL:https://www.youtube.com/watch?v=e6rUSCJX7pg trad. italiana MdC.

7. Berhane, Negussie, intervista, 31 gennaio 2020.

8. Daniel, Ambaw, intervista, Addis Abeba, 13 marzo 2019.

9. Yared, Shumete, የኢትዮጵያዊያን የጋራ ታሪክ በመፅሀፍ ሳይሆን በደም የተፃፈ ነው!, 2019, URL:http://www.youtube.com/watch?v=k6PJzSv5d_w, traduzione di Yohannes Hagos.



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